La conferenza non descrive la malattia e i suoi sintomi, a tutti ben noti, ma si sofferma sulla vita e le opere di James Parkinson, in Italia sconosciute anche agli addetti ai lavori: nato a Shoreditch, un sobborgo di Londra, nel 1755, laureato in medicina e tirocinante al London Hospital, J.P. egli lavorò come medico internista e poi come specialista e iniziò a scrivere varie opere non solo di medicina ma anche di chimica, igiene, tecniche rianimatorie e libelli di medicina divulgativa.
Uomo buono e virtuoso, vissuto negli anni immediatamente successivi alla rivoluzione americana e francese, assorbì i fermenti innovativi e rivoluzionari che provenivano da quei movimenti, lottando non solo per curare le malattie ma per migliorare le condizioni di vita di coloro che la lotteria della vita aveva maggiormente perseguitato (malati cronici, bambini, pazienti ricoverati negli ospedali psichiatrici, soggetti indigenti).
Già 200 anni prima della legge Basaglia, J.P. si battè strenuamente per dare dignità ai pazienti psichiatrici, che venivano incatenati falle panche e frustati da aguzzini crudeli, pagando anche transitoriamente con il carcere le sue idee anticipatorie. Nel 1817, privo degli odierni raffinati strumenti diagnostici, scoprì solo con l'osservazione clinica la malattia che poi lo rese celebre, ma scrisse anche vari pamphlets rivoluzionari, di medicina interna, ricchi di consigli di vita quotidiana.
La morte lo colse nel 1825 per un ictus con emiplegia destra e afasia.
In un periodo come l'attuale di prevalenza degli aspetti tecnici e strumentali della medicina, J.P. valorizzò gli aspetti etici e psicologici del prendersi cura, ampliando l'atto medico di concetti che ricalcano il Giuramento di lppocrate: bene del paziente, capacità d'ascolto ed empatia.
Si tratta di aspetti che si richiamano alle origini dell'ars medica e che l'esercizio odierno della sanità sembra purtroppo avere quasi del tutto smarrito.